Danni da esposizione a uranio impoverito e responsabilità civile della Pubblica Amministrazione
14 giugno 2018 -
Sommario
1. Il caso dei danni da esposizione ad uranio impoverito: la notorietà del pericolo
2. Malattie e decessi tra i lavoratori militari: la ricerca del nesso di causalità
3. La condotta omissiva del Ministero della Difesa e l’accertamento di responsabilità
1. Il caso dei danni da esposizione ad uranio impoverito: la notorietà del pericolo
Negli ultimi decenni, la complessa
questione sui danni alla salute e all’ambiente derivanti
dall’esposizione all’uranio impoverito ha richiamato l’attenzione della
dottrina e della giurisprudenza e ha portato all’istituzione di apposite
commissioni parlamentari d’inchiesta per l’analisi delle problematiche
che derivano dall’utilizzo di tale sostanza.
Il depleted uranium è un
rifiuto tossico che si ottiene dal procedimento di arricchimento
dell’uranio naturale eseguito nelle centrali nucleari e che come tale
dovrebbe essere stoccato e smaltito. Tuttavia, considerate le sue
caratteristiche piroforiche e l’elevata densità, lo stesso è stato
riciclato per lungo tempo dall’industria bellica per la produzione di
proiettili e ordigni. L’utilizzo di munizioni contenenti il metallo in
questione è stato riscontrato in numerosi teatri bellici, in particolare
nei conflitti che hanno interessato il Golfo e l’area dei Balcani
nonché, così come affermato da fonti accreditate, nelle unità
addestrative distribuite sul territorio nazionale.
È opportuno osservare come già all’epoca
dei predetti conflitti, lo stato delle conoscenze scientifiche fosse
tale per cui poteva dirsi quantomeno nota la pericolosità degli
armamenti all’uranio impoverito, sebbene mancassero delle certezze
scientifiche sui singoli effetti patologici.
La notorietà dei rischi per la salute
umana derivanti dall’esposizione prolungata a tale fattore patogeno è
comprovata dai documenti in possesso del Ministero della Difesa (ad
esempio, l’Air Force Armament Laboratory del 1977) dai quali
emerge come quest’ultimo fosse a conoscenza già da tempo non solo dei
potenziali rischi per l’integrità fisica dei militari ma anche delle
misure di protezione adottate in primis dalle forze
Statunitensi, il principale esercito al fianco del quale hanno operato
le milizie italiane. A comprova di ciò risultano significative alcune
dichiarazioni rese da militari in missione all’estero con le quali gli
stessi testimoniano di aver informato più volte i loro superiori del
fatto che le tute indossate dagli appartenenti all’esercito americano
ricoprissero interamente il corpo, mentre i militari italiani
continuavano ad eseguire gli incarichi con l’ordinaria divisa,
consistente in pantaloni e maglietta.
Proprio in presenza di
situazioni di rischio, anche solo potenziali, come quella appena
prospettata, nasce l’obbligo in capo al Ministero della Difesa, quale
datore di lavoro nell’ambito delle Forze Armate, di adottare le adeguate
misure per la tutela della salute e della sicurezza del personale
militare.
Al riguardo assume rilevanza il
principio di precauzione, la cui applicazione genera un orientamento
nelle scelte di condotta in presenza di incertezze scientifiche su
determinati fattori di rischio, assicurando una tutela anticipata
rispetto ai risultati della ricerca scientifica e quindi all’eventuale
intervento delle misure di prevenzione. Così come si conviene dal
disposto dei generali criteri prudenziali della responsabilità civile e
da specifiche disposizioni normative, il mancato rispetto di
tale obbligo si traduce nell’imputazione della condotta omissiva al
datore di lavoro o all’autorità competente all’adozione dei
provvedimenti e delle misure di sicurezza, con le relative conseguenze
in termini di responsabilità e risarcimento del danno.
2. Malattie e decessi tra i lavoratori militari: la ricerca del nesso di causalità
All’inizio del nuovo millennio si è
registrato un incremento dei ricorsi all’autorità giudiziaria per il
risarcimento dei danni subiti dal personale militare in servizio
all’estero. La numerosità dei soggetti lesi, la sproporzione rispetto
alla dimensione ordinaria dei danni nonché le specifiche patologie
lamentate dai militari o dalle famiglie degli stessi, porta ad un
inquadramento della vicenda nell’ambito dei danni di massa.
Nel caso di specie, i pregiudizi
lamentati dal personale delle Forze Armate riguardano la contrazione di
patologie tumorali (in particolare il Linfoma di Hodgkin) associate
all’esposizione ad uranio impoverito, la cui presenza è stata
riscontrata sia nei teatri di guerra all’estero sia all’interno dei
poligoni di tiro e nelle zone adiacenti. La correlazione tra il contatto
con la sostanza cancerogena e l’insorgenza delle malattie tocca uno
degli aspetti più delicati dell’indagine causale dal momento che queste
ultime non rivestono carattere di specialità in ragione dell’agente
causante ma possono originare da una pluralità di fattori.
Il quadro appare ulteriormente
complicato dalla natura lungolatente delle patologie in questione che
permette l’intervento di altri fattori all’interno della sequenza
eziologica, i quali potrebbero causare una vera e propria interruzione
del nesso tra l’esposizione originaria alla sostanza radioattiva e il
danno.
Ai fini della dimostrazione del rapporto
di causalità, la giurisprudenza civile ha accolto il criterio del “più
probabile che non”, per cui una forte evidenza statistica della
correlazione causale può convincere l’organo giudicante della maggior
probabilità che il danno sia frutto dell’esposizione a tale fattore
patogeno, a meno che non esistano prove concrete della riferibilità ad
un fattore eziologico distinto (tra le pronunce più recenti si veda
Cass. civ., Sez. III, 9 giugno 2016, n. 11789, in Pluris).
In applicazione del criterio
probabilistico summenzionato, le sentenze che si sono susseguite con
sempre maggior frequenza (Cons. Stato, 29 febbraio 2016, n. 837, in De Jure) hanno dato vita ad un vero e proprio orientamento
giurisprudenziale che riconosce il nesso causale tra le patologie
contratte dai militari e il contatto con le particelle di uranio
impoverito. Di recente infatti, considerata la sostanziale
omogeneità delle valutazioni dei giudici, sono state identificate due
nuove sindromi, quella dei Balcani e quella del Golfo per indicare la
lunga serie di patologie sviluppate da numerosi soldati italiani al
ritorno dalle missioni di pace internazionali. Attualmente si parla
anche di Sindrome di Quirra con riferimento alla serie di morti sospette
e casi di tumore diagnosticati su militari e pastori residenti
nell’area del poligono sardo.
3. La condotta omissiva del Ministero della Difesa e l’accertamento di responsabilità
Considerato lo stato delle conoscenze
scientifiche circa i rischi connessi all’esposizione ad uranio
impoverito, nonché la prova del nesso eziologico tra l’esposizione a
tale sostanza e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali -
requisiti imprescindibili per addivenire ad una corretta definizione dei
profili di responsabilità - i giudici investiti delle cause hanno
proceduto all’analisi della condotta del Ministero della Difesa.
Il percorso diretto al riconoscimento
delle responsabilità all’interno della complessa questione che vede lo
Stato nella veste di convenuto a giudizio, non è stato privo di
ostacoli. Le criticità di natura qualificatoria della responsabilità, le
problematiche relative all’individuazione dell’elemento soggettivo del
fatto illecito commesso dall’Amministrazione militare e quelle inerenti
al riconoscimento della persona del datore di lavoro all’interno delle
pubbliche amministrazioni sono state accompagnate da un persistente
atteggiamento negazionista da parte dei vertici militari.
Tali complessità sono state in
parte superate dalla pronuncia del Tribunale di Roma del 9 giugno 2004
che per prima riconosce e dichiara la sussistenza del nesso causale tra
la condotta colposa del Ministero della Difesa, considerata omissiva
nell’adozione delle adeguate misure di tutela della salute e della
sicurezza dei militari, ed il danno patito a seguito del contatto con le
particelle di uranio impoverito, la cui nocività era da ritenersi nota.
In particolare, la successiva pronuncia del Tribunale di Firenze del 17
dicembre 2008 imputa all’Amministrazione militare «un atteggiamento non commendevole e non ispirato ai principi di cautela e responsabilità (…),
consistito nell’aver ignorato le informazioni in suo possesso, (…) nel
non aver impiegato tutte le misure necessarie per tutelare la salute dei
propri militari e nell’aver ignorato le cautele adottate da altri Paesi
impegnati nella stessa missione, nonostante l’adozione di tali misure
di prevenzione fosse stata più volte segnalata dai militari italiani».
L’indirizzo seguito dalle prime
pronunce di condanna a carico del Ministero della Difesa (si veda, ad
esempio, Cass., sez. III, 15 luglio 2009, n. 16456, in Foro it., Mass. 2009),
si presenta come monolitico nel riconoscere la responsabilità aquilana
dell’amministrazione militare per la violazione del principio generale
del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. La qualificazione
in chiave extracontrattuale dell’agire del Ministero della Difesa
richiede la prova degli elementi costitutivi del fatto illecito, quali
il fatto e il danno, il nesso di causalità e la colpa o il dolo
dell’amministrazione pubblica.
Dalle pronunce successive emerge
un orientamento giurisprudenziale decisamente meno omogeneo quanto alla
qualificazione - aquilana o contrattuale - della responsabilità.
Per
far luce sulle fasi dell’evoluzione giurisprudenziale, si confrontino
due pronunce del tribunale di Roma, una di luglio e l’altra di dicembre
del 2009. Dall’analisi della prima sentenza si evince un mutamento nel
giudizio sulla natura della responsabilità, laddove il tribunale
capitolino per la prima volta riconduce la pretesa risarcitoria avanzata
dal militare all’ambito contrattuale, sulla base del fatto che gli
elementi indicati dall’attore sono «riferibili ad una condotta
dannosa che (…) costituisce la diretta conseguenza della dedotta
violazione dell’obbligo contrattuale di garantire, in relazione allo
specifico ambiente lavorativo, la sicurezza dei dipendenti, avendo
l’attore dedotto la violazione delle misure di sicurezza necessarie a
garantire l’integrità psicofisica del personale militare impegnato in
zone in cui era noto il rischio di contaminazione e delle conseguenti
patologie». Tali osservazioni comportano l’applicazione tanto
dell’art. 2087 c.c. quanto dell’art. 32 Cost. per la tutela della salute
quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività. La decisione dei giudici romani che qualifica in termini
contrattuali l’azione risarcitoria proposta dal militare danneggiato,
genera discontinuità nel panorama del contenzioso in materia di danni da
esposizione a uranio impoverito.
A distanza di qualche mese, una nuova pronuncia del medesimo tribunale (Trib. Roma, 1 dicembre 2009, n. 10413, in De Jure) riconosce la responsabilità extracontrattuale del Ministero della Difesa, a fronte dell’azione proposta jure proprio dai
familiari del Caporal Maggiore dell’Esercito Italiano A. D. R. avverso
l’Amministrazione militare, per ottenere il risarcimento dei danni
subiti indirettamente per la perdita del loro congiunto.
L’indirizzo ormai consolidato tra la giurisprudenza più recente affianca al profilo aquiliano della responsabilità dell’amministrazione
militare quello contrattuale, ogniqualvolta assuma rilevanza la
qualifica di dipendente pubblico del ricorrente nonché la posizione del Ministero della Difesa quale datore di lavoro (si v. Tribunale di Roma, n. 16320 del 15 luglio 2009; TAR Campania, n. 17232, 5 agosto 2010).
Il diverso inquadramento dell’azione
porta con sé anzitutto delle conseguenze sul piano della competenza a
conoscere la causa. Così come si legge nella già citata pronuncia del
Tribunale capitolino del 2009 (Trib. Roma, 15 luglio 2009, n. 16320, in De Jure) «sussiste
in linea di principio la giurisdizione del giudice amministrativo,
trattandosi di controversia relativa al rapporto di lavoro», mentre invece qualora sia dedotta la responsabilità extracontrattuale, va dichiarata la giurisdizione del «giudice
ordinario, trattandosi di controversia fondata sulla generica
responsabilità da fatto illecito, a prescindere dai contenuti delle
obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro».
Occorre
inoltre soffermarsi sulle conseguenze in merito al profilo probatorio.
In proposito non muta l’attribuzione all’attore del maggior onere di
provare il rapporto di causalità tra l’esposizione alla sostanza e la
contrazione della patologia, sebbene nel caso in cui si faccia valere la
responsabilità contrattuale dell’amministrazione militare, lo stesso
viene esonerato dalla necessità di dimostrare la conoscenza da parte del
datore di lavoro della nocività delle sostanze. D’altra parte, sul
Ministero convenuto in veste di datore di lavoro graverà l’onere di
fornire la prova dell’insussistenza o dell’irrilevanza
dell’inadempimento lamentato dalla parte attrice.
Infine, il mutamento di prospettiva
presenta dei risvolti anche con riguardo all’istituto della prescrizione
poiché i danneggiati che adiscono il giudice facendo valere la
responsabilità contrattuale del Ministero della Difesa beneficiano del
più ampio termine decennale a fronte di quello quinquennale previsto dal
rimedio aquiliano.
In ogni caso, a seguito
dell’accoglimento della richiesta risarcitoria sia a titolo di
responsabilità contrattuale che extracontrattuale, il danneggiato avrà
diritto al ristoro di tutti i danni, patrimoniali e non, causalmente
riconducibili alla contaminazione da uranio impoverito, in applicazione
delle disposizioni civilistiche.